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FERRUCCIO ORUSAFerruccio Orusa, nato a Savigliano nel 1947, dopo aver trascorso l’infanzia in un paese del saluzzese, Costigliole Saluzzo, che gli lasciò molti ricordi di vita, riportati nei componimenti poetici, si trasferì nella prima adolescenza a Savigliano, dove già aveva maturato alcune ma significative esperienze formative. Compiuti gli studi presso il Liceo classico, si laureò in Filosofia, con indirizzo psicologico, presso l’Università degli Studi di Torino. Ha praticato la professione di insegnante di lettere senza tuttavia trascurare il proprio interesse per lo studio della formazione e lo sviluppo della psiche umana. Ha frequentato, infatti, a Torino sin dal 1992 il Centro di Studi Metis, presso il quale ha assistito a lezioni, gestito gruppi di studio e conferenze. Frutto più significativo di questo lavoro sono state le ricerche personali poi raccolte nel volume “Alla ricerca del padre”. Ora lavora come collaboratore ad un gruppo di psicologi, che svolgono varie indagini freudiane o lacaniane, denominato Filikì Eteria a Torino. Sempre attivo nel mondo saviglianese con interventi in ambito culturale, si dimostra non dimentico della sua primitiva formazione umanistica. Ha ripreso, infatti, in questi anni la produzione di componimenti poetici, presso l’associazione saviglianese “Clemente Rebora”. La sintesi tra le varie matrici culturali, che ebbero ad influenzare ed ispirare Ferruccio Orusa sono ben presenti nei suoi componimenti. A mia madre Ti ricordo coi tuoi affanni, le tue premure e le tue ansie, le speranze ed i presti disinganni. Avesti cura della famiglia, come la chioccia che provvede ai pulcini. Il mondo, fuori dalle mura di casa, fu poca cosa per te: passavi solitaria tra la gente che poco ti conobbe: timida, signora e riservata. Sorridevi a chi incontravi, schiva di confidenze. Tenesti sempre quel fare distinto che sedusse mio padre. Tutto in casa girava intorno a te: tuo marito, i tuoi figli, i tuoi nipoti. Portasti nel cuore un antico dolore chissà quale, chissà perché, che invase tutti noi che ti fummo accanto. Rara in te la gioia negli ambienti casalinghi, che, invece, simulavi a chi era forestiero. Ti fu avara finché fosti solo moglie e madre, mi chiedesti ascolto per dei crucci che vennero meno quando ti scopristi nonna, perché le novelle gioie ti smorzarono le vecchie angosce. Ti ringrazio per la vita che mi hai dato, con la gentilezza nostalgica che era tua, che mi hai trasmesso e mi ha segnato: perché questa è la vita di noi mortali. Borgo antico Dolci colline, dove curioso e attento appresi i rudimenti di giocosi lavori, m’industriai in arti creative, andai a cercare frutti di bosco, corsi per i declivi con altri monelli, e imparai a difendermi da improvvisi mutamenti di una natura selvaggia. Dolci colline, vi incontro per ricordar la culla del mio primitivo sapere. Strade del borgo antico dove passai per lieti giochi, ansimante, sull’acciottolato, sotto Porta Graffiona, ignaro della sua bellezza o davanti ai castelli, di cui sapevo poco, or vi trovo orgogliosi nel dirmi il vostro passato. Ricordo il rumore degli zoccoli dei cavalli o dei buoi che tiravano ansimanti il carro stridente alla salita, e noi, fanciulli, noncuranti della fatica dei bovari, che spingevano le bestie al lavoro, salivamo sugli alberi in un gioco senza quartiere. Scendevano dagli usci le donne coi secchielli per cogliere l’acqua alla fontana, mentre gli uomini tornavano dal lavoro colla giacca alla spalla ed il fazzoletto al collo. Vengo a contemplar reliquie dal tempo lasciate: monumenti, un segno del passato, pietre scolpite, chiese affrescate, manieri di difesa con il borgo sottostante a quello medioevale. Poi ville sparse nei clivi della collina, disseminata di coltivi, un tempo abitate da mercanti o contadini intraprendenti. Su tutto passa il tempo, tutto trascende. Anche gli affetti umani mutano. Solo la storia creata dall’uomo permane in una lotta più lunga, per un tempo più duraturo. Il bambino ed il lavoro Erano genti laboriose in quegli opifici, dove il martello picchiava sull’incudine e soffiava la forgia, dove vedevo plasmare con forza demoniaca i metalli. Scoprivo le automobili crescere, giorno dopo giorno, da semplici strutture portanti, i “sassì”, trasformate da un lavoro collettivo, con l’aggiunta paziente e metodica di parti, in prodotti finiti, luccicanti e pregni di un odore nuovo e accattivante. Ricordo i barattoli delle vernici, che ricoprivano le lamiere, già martellate con pazienza certosina, per conferire ad esse un colore nuovo e luccicante. Artefici del prototipo in legno era il reparto dei “minusiè” con quel profumo di legno nuovo dove mi recavo a rubare i chiodi e i pezzi di assiti, con cui creare qualcosa di mio. Circondati da un alone misterioso erano gli uffici dove si preparavano su carta i modelli da realizzare. La sirena del mattino chiamava al lavoro ma, noncuranti di essa, nella paglia, e galline covavano le uova e, nelle stie, i conigli brucavano l’erba, che la man solerte delle massaie aveva presto recato. Nell’orto, nel frutteto e nella vigna, crescevano frutta e ortaggi che una pazienza contadina di donne forti sapeva alimentare. Crebbi nel grembo di questa comunità, assistito dagli avi materni nella mia prima età, quando la fantasia correva sui prati e rivestiva di significati antichi e simbolici i fossi, i filari delle viti, i noci scuri e severi. Piansi contro la civiltà, che prepotente divorò la mia collina, la nostra collina, dove vissi con parenti coetanei un’infanzia piena di sogni. Era il crepuscolo degli spiriti immanenti e l’alba degli uomini, quando mi iniziai ai libri di scuola, assistito da figure sagge e prudenti, che mi trasmisero l’etica contadina di un rapporto con la cultura e con la natura, nel rispetto di questa, per averla amica, capace di soddisfare i bisogni primari. Strana comunità, quella in cui vissi, diversa da altre che conobbi, cenobio di tradizioni artigiane e contadine, con impronta patriarcale, che plasmò in me le esigenze più vere e più antiche di una vita associata. Erano le sere di tutte le stagioni, fredde d’Inverno, profumate in Primavera, afose nell’Estate e malinconiche nell’Autunno, quando il lavoro terminava e pazienti, stanchi, uscivano dall’opificio gli operai sulle biciclette, accompagnandosi a stormi, in quei percorsi consueti. Ma qualche ostinato rimaneva, per cogliere il gusto estremo di un lavoro più forte, più vivo, anche nelle giornate del Sabato o nelle mattine della Domenica, ed orgoglioso tornava nel meriggio dei dì festivi per mostrare a parenti od amici di aver realizzato la propria arte. Tutto era come se il tempo fosse tornato indietro di sessant’anni e l’etica del lavoro fosse rimasta giolittiana. C’era una volta questo mondo del lavoro ed io crebbi nel suo grembo, stupito ed innamorato. Quando me ne sovviene il ricordo, lo cerco nel mio passato, e più ci penso e più mi rendo conto che l’ho fatto mio. La cascina abbandonata Accarezza il vento le pietre delle tue vecchie mura, s’ode il fruscio dei miei passi sull’incuria che da anni abbandonò le foglie secche nel cortile. Cigola la porta, ma le stanze che conobbi piene di vita e di voci domestiche ora son vuote e silenziose. Nella stalla una greppia, pochi anelli, ceste al muro. Dove sono gli armenti, di cui vidi le forme di cui sentii i muggiti, i belati, di cui gustai i prodotti? La stia non ha più forma. Il ballatoio, d’assi contorte, dice il suo tempo. La vecchia scala, esposta all’intemperie, ormai cede. La vite inselvatichita sale sopra le tegole, tutto invade. Volteggia in cielo un falco ma non trova i pulcini di cui fu predator vorace, cerca una serpe tra le rocce, la vede e l’artiglia. Veloce s’alza in cielo con il premio, ormai inerte, del lavoro da recare al suo nido. Nel pozzo l’acqua, le ombre, le luci diafane e l’eco delle mie voci mi richiamano ricordi antichi. Ma il muschio che l’invade mi disillude, i rovi e gli arbusti non hanno pietà: tutto sommergono e nessuna falce più li respinge. Torno al mio mondo e lascio che la natura si riprenda ciò che fu suo. Le quattro stagioni Primavera Spira il vento tiepido dagli alti colli, i prati fioriti lambiscono le nevi, discendono a valle i rivi abbondanti, vanno leggiadri gli animali ai novelli amori. Estate Le frutta mature colorano i mercati, si diffondono i profumi dell’orto e dei fiori, le voci festose e vivaci porgono sollievo ai lavoranti trasudati alla calura. Autunno Si diffondono frutti di bosco. Sfumano le nebbie: un fascio di luce investe foglie gialle sparse. Inverno L’acqua nei fossi corre sotto il ghiaccio, profuma l’aria di legna bruciata, dorme la terra innevata. Al tocco della campana vanno scialli neri. Sera d’Inverno Scorrono le acque del fiume sotto i rami imbiancati di brina. Giungono profumi di foglie secche bruciate. Si diffondono le nebbie sui prati e sui coltivi. Il tramestio delle acque si mescola ad un rumore indefinito. I bagliori della città imbiancano l’aria, s’odono stridere ferri sulle rotaie. Dolce scende la notte a coprire il lavoro e la natura. Vent’anni Vent’anni, lo zaino sulle spalle, lo stesso che mi fu compagno sui monti della mia valle. Luoghi sconosciuti, profumi mediterranei inebrianti. Cortesia richiesta e spesso soddisfatta. Città, chiese, palazzi, piazze, musei patrimonio della storia fatta dai nostri avi, che ci aveva fatto uni, liberi, non schiavi. Assiso davanti ad un monumento, alla gente mescolato, che davanti ad essa passava indifferente forse consueta, forse insipiente, feci mia l’arte e respirai l’aria delle notti stellate, dove riposai le stanche membra affaticate dalle lunghe camminate. Così è la civiltà: cogliere l’eredità d’affetti e sapere, nel mutuo scambio, maturare un’esperienza, anche con doloroso strappo, da donare a chi verrà. A mio padre Il tuo consueto modo di fare diceva di un’infanzia malvissuta, di un’adolescenza incompiuta, di angosce che ti avevano turbato la vita. Vissi insoliti i tuoi gesti di pietà, le tue comunioni d’affetti che ti fecero padre. Mi stupì la tua improvvisa e fanciullesca disponibilità verso la discendenza, la prole che ti demmo. Questi gesti anche mi regalasti, e li seppi custodire come una tua benedizione per la mia sopravvivenza. Lenta la riconoscenza mi sbocciò nella coscienza, la preservai dalle erbacce con un lavorio di anni, virgulto che maturò dopo quella notte nera, quando te ne andasti solo, con tutta la tua sofferenza. Fratelli Tante religioni sono tra di noi, ed insieme portano un grande messaggio. Tanti colori sui volti si distinguono, la pace del padre tutti desideriamo, chiediamo il perdono per aver desiderato troppo. L’odio per il diverso ha oltraggiato gente di altra razza. La forza ha sopraffatto i più deboli. L’indifferenza ha emarginato gli inabili. Di questo noi ci siamo pentiti anche se non abbiamo alzato la mano, eravamo, però, nel mondo dei prepotenti. Nuovi sentimenti ci animano e l’essere nostro mite ci ritorna: stanchi di un mondo vorace, che ci affanna e ci tormenta, desideriamo la pace della buona novella che tanti profeti ci hanno portato. Padre nostro, facci tutti fratelli. Maddalena Così ti ricordo: con la gioia nel cuore senza il peccato di essere donna, accudivi i pargoli stringendoli al petto accarezzandoli sin dal primo mattino. Presta nei lavori di casa attendevi a loro ed al tuo marito artigiano che tornava mai stanco dal suo lavoro. Ti invidiavano le pettegole col loro riso acido, che diceva tutta l’incapacità di dare ciò che tu sapevi donare. Si vedevano già sulla porta di casa le liberali gesta d’affetto e s’intuivano nel segreto gli abbracci, i baci, le gesta d’amore con chi condivideva soddisfatto con te la vita. La tua persona sinuosa e contenta si muoveva agile e leggera sul ballatoio, noncurante degli sguardi indispettiti di chi puritana non sapeva esprimersi così. Altri ti avrebbero desiderato, ma fosti fedele. Felice crebbe la tua prole nell’armonia domestica, nell’amore consacrato, in un corpo libero e senza peccato. Anche quando i tuoi capelli assunsero un altro colore la tua bellezza non mutò perché era quella che portavi dentro. Teresa Mi dicevano che quand’eri giovane cantavi, quando ti conobbi non lo facevi più: avevi sempre un semplice sorriso che t’illuminava il viso. Per ricamare o per fare maglia lavoravi all’arcolaio al tombolo, al telaio. Un vicino ti portava ciò che aveva nell’orto, e tu eri paga di quello e di poco altro. Bevevi il caffè alla cicoria, andavo a prenderti l’acqua alla fontana mi pagavi con la liquirizia e con una carezza. Poi ti stavo a guardare, passavo delle ore, a sentirti raccontare delle storie vecchie del mio paese che la mamma non conosceva. Non so da dove ti venisse tutta quell’arte e quella pazienza per dipanare, per far la maglia, per ricamare. Quando mia madre non sapeva dove fossi veniva a cercarmi da te, e lì mi trovava. Avevi una stanza sola con poche sedie, la dispensa, il guardaroba, il tavolo, la stufa, il divano letto, la credenza ed il lavandino col secchiello. Ma eri contenta, ti bastava quello. Ti trovò una mattina ancora nel letto chi doveva ritirare una maglia, proprio quel giorno. La maglia era pronta, anche tu eri pronta per lasciarci e nessuno avrebbe più visto il tuo sorriso. Virginia Misteriosa ai più restò la tua magione che dominava il paese, come tu dominavi la servitù cui era concesso l’ingresso per il servizio, ed aveva come dovere il silenzio e la devozione. Ultima discendente di una casta nobiliare mantenesti l’alterigia verso il popolo del paese, ti negasti il piacere della compagnia segnando la tua vita col distacco, la noia, la superbia, avendo in spregio la laboriosità e la comune allegria, anche della borghesia. Tenesti sempre segreto un figlio, frutto delle segrete tue voglie mentite in pubblico ma soddisfatte in segreto, preferite al disdegnato matrimonio per presunto degrado sociale, che avrebbe tradito un blasone, un giuramento patriarcale. Lo vivesti figlio tuo e della vergogna, benedetto, dissero, da chi fu suo padre, ma maledetto dalla sorte. Uscì dal ventre della madre covato nella casa che lo accolse e lo tenne chiuso fino alla morte, come segno del ripudio che gli regalasti. Uscì dalla casa, con tacito funerale, per finire inumato, come se l’accesso alla vita fosse stata una sua infamia, una sua richiesta indebita, un suo peccato. Angelino Con la mano abile, con gesti saputi tagliavi sottili strisce di legno dai rami di castagno freschi di raccolta, per poi intrecciarle e per farne ceste o gerle. Le tempravi al calore negli spigoli più aspri. Quand’eri giovane facesti il barbiere e conservasti l’arte del mestiere, di cui qualcuno, come mio nonno, fruì come servizio a domicilio. Te ne arrivavi minuto e zoppicante con un ramino, il rasoio, il pennello e poi con maestria muovevi la lama su quel volto ormai stanco e sfatto. Veniva con te un piccolo cane col pelo adattato come tu lo volesti. Ti fu fedele ed affettuoso come tu fosti a lui, come se fosse stato una tua creatura. Ti fu vicino quel giorno quando, col carretto caricato di ceste e di gerle te ne andavi al mercato per la solita via, ed incontrasti la morte. Ti fu vicino più di tutti quando ti vide cadere sull’asfalto e mugolando cercò di comunicar con te. Te ne andasti così e dopo un mese se ne andò da solo anche il tuo animale, perché ormai non aveva senso la sua vita su questo mondo. Gattinara Si respirava un’eleganza in quella casa, in quella villa campagnola, Gattinara, che ora non c’è più o non è più tale. Il glicine saliva sul pergolato, accostato al viale, col battuto di acciottolato, dal cancello all’abitato e la fontana che buttava l’acqua senza posa in un giardino pieno di fiori dai più variegati colori nelle belle stagioni, o immerso nelle nebbie col freddo ed il ghiaccio nel sopravvento degli invernali rigori. La famiglia mi fu sempre accogliente e generosa: un po’ burlone il padre, affettuosa la madre, pronto al riso il fratello maggiore cogli occhi splendenti e accattivante la sorella più dimesso ma sempre familiare il minore. Diversi in compagnia per indole i fratelli protetti dal mondo in quel castello incantato. Si sentiva il muggito degli armenti della cascina accanto, lo starnazzare delle oche, il verso concitato delle chiocce che uscivano dalle ceste, il nitrito dei cavalli, le urla dei massari, si vedevano i colombi volare sulle nostre teste. Il tutto coi profumi della campagna che mi piacevano tanto, che mi facevano tornare ad un mondo che altrove era stato mio. Forse per questo mi sentivo di casa, anche se ero forestiero. E la gentilezza diffusa di chi mi fu ospite mi alimentò primigeni ricordi che mi portavo appresso, e tuttora vivono come radici della mia persona. La casa degli archi In quella casa, con le stanze grandi, i muri spessi, gli stucchi alle crociere del soffitto, le finestre alte e strette, le sovrapporte, con disegni di caccia o di lavoro agreste, vissi una madre sempre indaffarata nelle faccende domestiche, mai spensierata, ed un padre preso nel lavoro o pronto alla partita. Mi piace, però, ricordarla così com’era fatta, anche se di arte non capivo nulla. Nel cortile di quella casa degli archi, che erano sul loggiato a due piani, lavoravano tanti artigiani, qualche salariato, cantavano e fischiettavano pezzi di operetta, gridavano per poco, tutti avevano fretta. C’erano un macellaio, un sarto ed un fornaio. Veniva talvolta anche un notaio. Operosi agivano nello stesso cortile, nello stesso ambiente, dove passarono tante persone, dove conobbi tanta gente. Nell’orto, insieme all’insalata, maturavano cipolle, rapanelli e qualche patata. C’era una grande vite che saliva fino ai balconi, dove fiorivano gerani e altri fiori a ciondoloni. Ricordo le finestre addobbate di fiori ai davanzali sulla strada per le processioni, con statue di madonne, di santi, simboli cristiani, cantilene, ceri, vesti diverse dei partecipanti. Nel cortile c’era il campanile della Confraternita che suonava le ore e, per ricorrenze, ritmi con nomi strani, che sentivo dire in dialetto ed ora non ricordo più. Correvano sui tetti i gatti randagi al solito richiamo che precedeva il pasto, della caccia ormai svogliati, dinanzi alla preda per timore più volte ritirati. Giacevano abbandonati negli scantinati, bauli da viaggio, che erano serviti a qualche mio antenato, in America emigrato poi ritornato con una fortuna conquistata. Insieme a mobili tarlati, accantonati, grandi fotografie d’illustri personaggi coi baffoni, o di donne compite coi capelli legati o fermati con spilloni, giovanotti col colletto inamidato, foto di gruppo all’osteria, al matrimonio, in lieta compagnia: militari riveriti come blasoni di famiglia, mi rimasero impressi nella memoria. Vicino alle foto giacevano vecchi arnesi, che erano serviti a mio nonno nei tempi andati, gettati a caso, alcuni appesi. Sotto il portico, in fondo ad una scala oscura, buia da fare paura, una cantina, che puzzava di mattoni ammuffiti, con vicino un pozzo ormai in disuso. Al riflesso della lampada, che ne faceva balenare il fondo, vedevo talvolta luccicar le acque, profonde come il ventre della terra. La mia città Colsi la tua bellezza ancora adolescente, inebriato della tua piazza medievale, con le linee sinuose e lunghe. Scorsi in quel monumento un aspetto severo, segnato da una storia che solo altrove avevo conosciuto: l’incuria aveva quasi cancellato la tua nobiltà. Cogli anni, per amor della propria terra, in un tenace lavoro collettivo, chi seppe riconoscerti ripristinò la tua identità. Sei ora graziosa, coi palazzi ripristinati tardo gotici o rinascimentali, le chiese romaniche o barocche, le torri, i monasteri, i conventi destinati ormai ad altro uso, le ville sparse nella campagna, una volta castelli, le cappelle votive, con riti pagani, travestiti in simboli cristiani, le strade campestri che, col loro percorso, sussurrano un antico passato. Eri sonnolenta, negli anni addietro, perché celavi ai più le tue fattezze. Piacevi a chi ti viveva di un semplice affetto quotidiano. Un lavoro attento scoprì dietro le facciate sciatte un passato elegante ed austero, raccolse cimeli di una storia che ti aveva resa nobile nel tempo. Così aggiunse a quell’affetto consueto e primigenio una ricchezza di forme sconosciuta. Così sei oggi, raccolta intorno alla tua torre possente. Non so dove andrai, mi sfuggi e mi incanti, hai ancora tesori da scoprire, che tieni nascosti come una donna seducente. Rimpiango quelli che in te vidi, ma da fanciullo non colsi, e pur rimembro, ma sono andati perduti per l’azione di persone dissolute. Intanto, quando passo sulle sponde dei tuoi torrenti, nei tuoi giardini, nelle vie e nelle piazze che fanno il tuo cuore antico, mi sento tuo e respiro la tua storia. Novembre Sfumano le nebbie e declina il sole, le terre arate e seminate si preparano ad un lungo letargo. Il pensiero va ai morti: tanti volti ormai non sono più. Volti che nella terra giacciono consunti, in un ciclo vitale che tutto involve. Ma nel ricordo restano, coi loro gesti, gli sguardi, or miti or severi, ilari e felici o tristi e pensierosi, nel trasmutar del tempo e degli umori. Il trascolorare di chi partecipò ai nostri affetti, resta indelebile nella memoria, dopo una lotta affannata o un declino accettato, rimane in noi. I fiori che, come essi, ebbero i virgulti della giovinezza, la bellezza della maggiore età ed il languore del declino, posano sulla tomba a suggello della vita di noi mortali. Transumanza Nella piana si lavora ai consueti mestieri, salgono le mandrie all’alpeggio, vanno sotto lo sguardo dei valligiani, in un percorso ormai consacrato dal rito. Per ripe scoscese o per valli sospese si pascono con fare consueto. Al grido attento del pastore si muove ubbidiente il cane guardiano. Fischiano le marmotte per richiamarsi al rifugio che le ripari dalle stie che, a valle, le farà prigioniere anche se di ciò son ignare, ma presaghe. Gli animali selvatici si vedono insidiato il cibo quotidiano, non avendoli l’uomo sottomessi al giogo nel gregge. Nelle baite si traduce il latte per il tempo che verrà, per sostegno nella magra stagione. La natura confonde l’uomo e gli armenti coi rigori, le calure e la fatica tempra e consuma anche chi a quest’opera è più uso. Tutto sottomette, tutto trasforma. Celebra il pastore un breve distacco da questo ciclo inesorabile, col focolare e le arti della sopravvivenza alla ventura transumanza. |